8 maggio 2008

Zula™
Di Maurizio Bianchini
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E sia ben chiaro che domani Zula se ne va da questa casa e non voglio sentire storie!
Urlò inviperita Iole verso la famiglia radunata intorno alla tavola sotto il patio a frescheggiare.
Tutti guardarono Zula un po’ imbarazzati ma lei non ci fece troppo caso.
Con quegli occhi limpidi e pieni di sincerità finì di mangiare quei due pezzi di carne e andò in giardino da sola e a testa bassa.
Dunque domani si riparte. Pensò seduta sotto un mosaico di stelle a respirar leggera la brezza del crepuscolo. Non era certo una novità per lei. Già poco dopo nata la madre. Una ghiriama che partoriva una volta all’anno. L’aveva abbandonata senza giustificazioni per accasarsi a far la vita comoda nella villa di un muzungu. E non ne aveva fatto un dramma. Aveva semplicemente cercato di sopravvivere e ci era riuscita fino ad oggi. Non ne fece un dramma nossignori.
Dormì in giardino quella notte. Sognò e si rigirò distesa nell’erba umida ma al mattino con il gallo era già pronta per andarsene. Senza bagaglio. Tanto a parte il tetto sotto il quale dormiva e quella semplice coperta non è che possedesse un granché.
Partì da Kilifi e si diresse lenta con fare vagabondo verso il north coast. Senza una destinazione precisa. Faceva un caldo quel giorno che stendeva e dopo pochi chilometri trovò un ruscello e bevve acqua fresca che la rimise in sesto. Poi sotto quel grosso albero dormì un paio d’ore in un silenzio che aveva dimenticato dato che nella casa da dove l’aveva sbattuta fuori c’era una confusione muzunga praticamente per 24 ore al giorno.
Per un attimo ripensò a Iole che era sempre stava scontrosa e insofferenze ma la capiva dato che aveva due bambini da accudire e non aveva certo tempo da perdere con una come lei.
Poi quando inquadrò i visi di Massimino e Duccio e Francesca cambiò espressione per un attimo quasi a sorridere. A loro voleva un gran bene.
Massimino aveva quattro anni. Una peste. Cresciuta in Africa poi. Aveva i capelli biondi biondi e il naso aquilino e dava delle botte che la metà bastavano. Aveva uno strano modo di camminare. Forse l’età. Ma quando correva verso Zula lei istintivamente si alzava che poi lui le crollava praticamente addosso. Si divertirà così. Pensava nel guardarlo gigionare poi disteso sul pavimento. Ma nel sonno ogni tanto si metteva a strillare contro chi sa quali oscurità che a Zula veniva la pelle d’oca e spariva discreta in un’altra stanza. Senza fare storie.
Duccio era il suo preferito. Due anni portati alla grande che già parlicchiava e camminava e batteva delle testate in giro che lei non ce la faceva mai a fermarlo in tempo. Svelto com’era. Aveva un occhio un po’ chiuso e Zula adorava vederlo con quell’espressione di uno che ha sbagliato tram ma non vuole darlo ad intendere. Come adorava quando si metteva lì a straparlare parole incomprensibili con la vaga illusione che lei comprendesse qualcosa. Ma in realtà non capiva un’acca anche se non glielo fece mai intuire.
Francesca era una storia a parte. 16enne in calore dedicava ore a sistemare quella foresta di riccioli che si ritrovava mentre Zula le sedeva discreta accanto sorbendosi i suoi inevitabili commenti sulle varie acconciature. Chissà perché poi se la tirava tanto per le lunghe. Aveva un fidanzatino africano molto carino che se sua madre lo immaginava soltanto succedeva il finimondo. Un sacco di amici che la cercavano sempre. Non riusciva proprio a capire perché usasse sempre la sua compagnia come scusa e raccontasse ai suoi che andavano a camminare al mare che a Zula piace tanto quando non era vero per niente solo per incontrare poi in segreto il suo giovane amato. Non era meglio trovare un’altra scusante? Che poi lei finiva sempre seduta in un angolo con una candela in mano ad ascoltare sospiri e ben altro mentre i giovani credevano di farla impunita. Una volta provò a farglielo capire allungando il passo verso casa e ignorandola quando la chiamava con dei dai aspettami. Ma poi il giorno dopo fece lo stesso.

Thomas si guardò attorno in una Malindi di lunedì notte che non c’era un’anima in giro neanche ad offrirgli moneta. Inquadrò la storia indugiando un attimo e si domandò se per caso non era finito nel posto sbagliato. Il Gazzettino Del Crepuscolo la dava come una buona destinazione. Gente ricca e con grandi case. Cibo a volontà e fanciulle in ogni dove. Quando arrivarono alle sue orecchie queste informazioni non ci pensò due volte e partì deciso e senza indugi. Era stanco di vagabondare per i villaggi senza far niente a sperare nella compassione di qualcuno che dividesse con lui un po’ di cibo. Poi trovò un angolo riparato che gli dava sicurezza e si addormentò con un occhio aperto. Consumò così la sua prima notte in town.
Al mattino iniziò a realizzare meglio dove si trovava. Il trambusto della gente e delle auto e dei pulmini lo colse improvviso che lui schizzò in piedi d’istinto. Si guardò intorno un attimo e si avviò in giro a cercar fortune. Ebbe la sensazione che non sarebbe stata facile. Ma non lo disse mai a nessuno. E di belle fanciulle in giro. Per adesso. Neanche l’ombra.

Quello stesso giorno anche Zula arrivò a Malindi. Aveva viaggiato quasi sempre di notte per scansare il caldo che nelle ore diurne spezzava le gambe. Ma non si infilò subito nella town a curiosare. La prese larga e si fermò in un posto dove potè bere un po’ d’acqua. Mentre si dissetava vide per terra un pezzetto di carne impolverato. Si guardò attorno furtiva e in lampo lo buttò giù controllando che nessuno l’avesse vista. Non era abituata a fare queste cose ma aveva una fame che sentiva i crampi allo stomaco. E non ci pensò due volte.
Poi con calma guardinga si avviò verso il centro scansando i posti più affollati. Non le piaceva la confusione e neanche i modi bruschi che certa gente ha.

Quando Eveline le si avvicinò la guardò all’inizio dubbiosa poi dato che non fece altro che chiederle da dove veniva e dirle che era proprio carina mentre le si sedeva accanto si tranquillizzò e torno a guardarsi intorno.
Carina io? Si domandava Zula un po’ stupita da questo originale complimento. Scrollò la testa.
Che poi invece era carina. Aveva un modo di guardare che disarmava. Un corpicino asciutto e proporzionato e sculettava bene suo malgrado. Aveva quel fare timido e seducente che conquistava ma non ne aveva mai approfittato. Visto che si ritrovava regolarmente a vivere per strada e di espedienti. Ma in fondo le piaceva vivere così. Cosa c’era di meglio che distendersi in un prato di notte a guardare gli astri e a sognare i sogni? Con cosa avrebbe scambiato quel senso di libertà che provava nello spostarsi per la vita come un animale sereno e randagio?
Eveline la invitò a casa sua. Lì per lì Zula fu restia anche perché non è bene fidarsi degli sconosciuti. Ma poi arrivò anche la madre che fu tanto carina e insistette così tanto che alla fine si lasciò convincere e pensò che in fondo un po’ di comodità non le avrebbero fatto male.
Non sbagliava. La famiglia di Eveline possedeva una casa gigantesca. Con un parco tenuto bene e il prato all’inglese liscio come il culo il di un bambino. Pensò sorridendo nascondendo poi il viso quasi a vergognarsi. Le piaceva gironzolare per quel parco dove il senso di pace trovava conferma nel cinguettio dei mille volatili lì intorno. Era proprio un paradiso. E poi la sera dormiva in camera con Eveline che aveva insistito tanto anche se lei forse avrebbe preferito il patio perché era più fresco. Selvaggia com’era.
Ma le piaceva Eveline. Aveva qualcosa che le ricordava Francesca ma più. Più. Più inglese ecco.
Di certo non le raccontava tutte le sue storie d’amore e di pianti e di sotterfugi. Anche se aveva la stessa età. Tutt’al più le raccontava che si annoiava un po’. Che le mancava Londra dove aveva gli amici veri. Che in fondo Malindi era una palla e andare a pescare con papà lo era ancora di più. E Zula inteneriva nel vederla così che la sfiorava con dolcezza e la guardava con gli occhi buoni. Poi Eveline prima di spengere la luce le dava sempre un bacio sulla fronte che le piaceva da morire questa cosa qua.

Al mattino gironzolava per il parco distratta dopo una bella colazione che l’aveva messa di buon umore. Eveline nuotava in piscina e ogni tanto la chiamava per dirle vieni anche tu in acqua. Figuriamoci. Zula odiava l’acqua. Due dei suoi fratelli ci avevano lasciato la pelle la dentro.
Poi dal cancello di casa sentì dei rumori invisibili e d’istinto andò a vedere cosa c’era.
Quando si trovò Thomas davanti fece la voce grossa alle richieste insolenti di quel maleducato.
Ma poi lui continuava a guardarla con un mezzo sorriso che alla fine si misero a parlare e gli strappò un appuntamento segreto nell’oscurità. Thomas si allontanò con la cresta ritta pensando ecco le fanciulle! E che fanciulle!
Si innamorò di Zula al primo sguardo. Quando poi potè appurare che non era neanche una facile si innamorò ancora di più. Sudò sette camicie per portarsela in un fienile a consumar sospiri e peccati. E ci rimase subito incinta. Come tutte quelle che si lasciano trasportare dalla passione e non usano precauzioni. E poi comunque che precauzioni avrebbe dovuto usare?
Anche lei si era innamorata di Thomas dal primo momento. Gli piaceva quel fare da macho che aveva. Che poi in fondo era un farfallone. Bastava che lei mostrasse i denti e lui tornava nei ranghi con la coda tra le gambe.
Quando nacquero eran tre truspolini. Due maschi e una femmina. Ai nomi ci avrebbero pensato poi i parenti. Come da tradizione.
Gli cambiò la vita a Thomas che smise di andare in giro a vagabondare e a fare il galletto con qualche squaldrina di Magengo. Zula che era mamma e intelligente capitava spesso dalle parti di Eveline che appena la vedeva impazziva di gioia e la rimpinzava di buon mangiare.
Non le fece mai capire che aveva dei problemi e che non se la passava bene con tre figli da sfamare e un marito desaparecido. Continuava a scherzare con lei di ogni piccola sciocchezza facendo finta di nulla.
Quando quel giorno rientrava verso casa era sera che arrivava improvvisa e le rare luci sparse in giro creavano miseri corridoi di chiarore dove orientarsi. Anche se Zula non ne aveva certo bisogno. Era abituata a passare in mezzo al buio indenne. Aveva come un sesto senso per questo.
Zula! Senti urlare dall’altra parte della strada una voce familiare che la chiamava.
Inquadrò meglio e vide Francesca che sorrideva e sbracciava stupita e felice di vederla immersa nella sua vacanza malindina a far tardi la notte con le amiche.
Zula ebbe come un sussulto e di slancio attraversò la strada senza guardarsi intorno.
Quando impattò sul paraurti di quel jeppone che arrivava a forte velocità morì all’istante anche se le sue viscere rimasero sulla strada in bella vista un bel po’ a disgustare inutilmente.

Che cazzo abbiamo preso? Domandò uno spocchioso milanese che aveva finito di imprecare contro segretarie e commercialisti al cellulare senza tener di conto la strada. Niente abbiamo tirato sotto un cane. Rispose un altro milanese spocchioso uguale ma con uno zero meno in banca.
Ah. Meno male. Svisò di fischio il primo. Per un attimo ho temuto che avevamo combinato un guaio.

A Zula. Il mio cane africano. Con amore e riconoscenza.



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