11 giugno 2008

ULTIME VOLONTA' DI UN CANE MOLTO DISTINTO
Di Eugene O'Neill





Eugene Gladstone O'Neill (1888- 1953), premio Nobel per la letteratura nel 1936, è stato una figura fondamentale per il teatro nordamericano. Scrisse questo "testamento" nel 1940, poco prima della morte di Blemie, il suo amato dalmata.


"Io, Silverdene Emblem O’Neill (noto ai miei familiari, amici e conoscenti come Blemie), sentendo gravare su di me il peso degli anni e delle infermità e avvertendo prossima la fine dei giorni, dispongo le mie ultime volontà nella mente del mio padrone. Egli non sarà a conoscenza di ciò se non dopo la mia morte. Allora, ricordandosi di me nella sua solitudine, avrà improvvisa cognizione di questo testamento e io gli chiedo perciò di farne un’iscrizione a mio perpetuo ricordo.

Ho ben pochi beni da lasciare. I cani sono più saggi degli uomini. Non tengono in grande considerazione le cose. Non perdono i loro giorni ad accumulare beni. I loro sonni non sono turbati dalla preoccupazione di conservare le cose che hanno e di procurarsi quelle che non hanno. Non ho nulla di valore da lasciare, tranne il mio affetto e la mia fedeltà. Li lascio a coloro che mi hanno voluto bene, al mio Padrone e alla mia Padrona che, lo so, mi piangeranno più di tutti gli altri; a Freeman che è stato tanto buono con me, a Cyn, a Roy, a Willie, a Naomi, e…..ma se dovessi fare l’elenco di tutti quelli che mi hanno voluto bene costringerei il mio Padrone a scrivere un libro.

Forse è inutile che io me ne vanti quando sono così vicino alla morte, che riduce in polvere tutti gli animali e le vanità, ma sono un cane che ha saputo sempre farsi voler bene.Chiedo al mio Padrone e alla mia Padrona di ricordarmi sempre, ma di non piangere troppo a lungo per me. Da vivo ho cercato di essere per loro un conforto nei momenti di dolore e una ragione di gioia in più nei momenti di felicità. Mi fa male pensare di poter essere per loro causa di dolore, da morto.

Ricordino che nessun cane ha avuto una vita più felice della mia (e questo lo devo all’amore e alle cure che hanno avuto per me), ed ora che sono diventato cieco, sordo, e zoppo e che ho perduto perfino il senso dell’odorato, tanto che un coniglio potrebbe passarmi sotto il naso senza che me ne accorga, il mio orgoglio è caduto in uno stato di penosa e confusa umiliazione.Ho la sensazione che la vita mi rimproveri di aver abusato per troppo tempo della sua ospitalità.

E’ ora che me ne vada, prima di diventare un peso troppo grave per me stesso e per quelli che mi vogliono bene. Sarà uno strazio lasciarli, ma non sarà doloroso morire. I cani non temono la morte come gli uomini. Noi l’accettiamo come parte della vita, non come qualcosa di ostile e terribile che distrugge la vita.

Chi può sapere quello che c’è oltre la morte? Mi piacerebbe credere, come i dalmati, alla cui razza appartengo e che sono devoti maomettani, che esiste un Paradiso dove si è sempre giovani e sempre pronti a fare pipì, dove si passa il tempo in compagnia di un’amorosa schiera di urì splendidamente pezzate; dove i conigli che (al pari delle urì) corrono veloci, ma non troppo, sono abbondanti come la sabbia nel deserto; dove ogni ora felice è ora di mangiare; dove nelle lunghe serate ci sono milioni di caminetti con ceppi che non si estinguono mai, e ci si accuccia davanti, e si socchiudono gli occhi alle fiamme, e ci si appisola e si sogna, ricordando i bei tempi trascorsi sulla Terra, e l’amore del Padrone e della Padrona.

Temo che questo sia aspettarsi troppo perfino per un cane come me. Ma la pace, almeno, è certa.La pace e un lungo riposo per le membra, la testa e il cuore vecchi e stanchi, e il sonno eterno nella terra che ho amato tanto. Forse dopo tutto, questa è la cosa migliore.

Esprimo un ultimo fervido desiderio. Ho sentito dire dalla mia Padrona: "Quando Blemie morirà, non dovremo mai più prendere un cane. Gli voglio così bene che non riuscirei più ad affezionarmi a un altro."

Ora io le chiedo, per amor mio, di prenderne un altro. Sarebbe un ben misero tributo alla mia memoria non possedere mai più un cane. Vorrei invece che lei, dopo aver avuto in casa me, sentisse di non poter più vivere senza un cane!Non ho mai nutrito meschini sentimenti di gelosia. Ho sempre pensato che la maggior parte dei cani sono buoni (e anche un gatto, quello nero al quale permettevo di dividere con me il tappeto del soggiorno durante le serate, il cui affetto tolleravo con spirito di amicizia, e in qualche raro momento di sentimentalismo arrivavo perfino a ricambiare un po’).

Certi cani, s’intende, sono migliori di altri. E i dalmata, naturalmente, come tutti sanno, sono i migliori. Perciò propongo un dalmata come mio successore. E’ difficile che possa essere così ben educato e di belle maniere, così distinto e bello come ero io nella mia giovinezza. Il mio Padrone e la mia Padrona non devono pretendere l’impossibile. Ma lui farà del suo meglio, ne sono sicuro, e anche i suoi inevitabili difetti serviranno, suggerendo il confronto, a tener vivo il mio ricordo.

A lui lascio il mio collare e il mio guinzaglio, il cappotto e l’impermeabile fatti apposta per me da Hermes a Parigi nel 1929. Non potrà portarli con la distinzione con cui li portavo io quando passeggiavo intorno a Place Vendome o più tardi lungo Park Avenue, destando l’ammirazione di tutti; ma , ripeto, sono sicuro che farà del suo meglio per non sembrare un cane "gauche" provincialotto. Qui nel ranch potrà dimostrarsi, sotto certi aspetti, abbastanza degno del confronto con me. Immagino che arriverà più vicino ai conigli di quanto non sia arrivato io in questi ultimi anni. E, ad onta di tutti i suoi difetti, gli auguro di cuore quella felicità che sono sicuro potrà godere nella mia vecchia casa.

Un’ultima parola di addio cari Padrone e Padrona. Ogni volta che verrete a visitare la mia tomba, dite a voi stessi con rimpianto, ma anche con la gioia nel cuore al ricordo della lunga vita felice che ho vissuto con voi: "Qui giace qualcuno che ci amava e che abbiamo amato".

Per profondo che sia il mio sonno io vi sentirò, e nemmeno la forza della morte potrà impedire al mio spirito di scodinzolare con riconoscenza




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